Top

iniziale_articolo
ari lettori,
in questo spazio parleremo di quello che (ancora) non sappiamo di Paestum e che ci interesserebbe scoprire. Perché se Paestum è considerata la città magno-greca meglio conosciuta, è anche vero che il sito riserva ancora molti rompicapi per archeologi, architetti e storici. In questa rubrica ve ne racconteremo qualcosa.
Questo mese la parola va all’archeologa Concetta Masseria.

Profumo di donna

“Vedete, io l’amavo. Era amore a prima vista, a ultima vista, a eterna vista.”

(Vladimir Nabokov, Lolita, 336)

In una vetrina del Museo di Paestum è esposto al pubblico un vaso molto importante per forma, per funzione, per provenienza e soprattutto per l’immagine dipinta sulla sua superficie.


Questa mi sembra l’occasione giusta per segnalarlo all’attenzione dei lettori e raccontarne la storia, il messaggio che veicola e i significati sottesi dietro l’apparenza più immediata. Si tratta di un vaso destinato a contenere olio profumato, una lekythos di fabbrica attica, a figure rosse su fondo verniciato in nero brillante. Recuperata molti anni fa da Pellegrino Claudio Sestieri nell’area del cosiddetto Santuario Meridionale, l’area sacra all’interno della quale si innalzano oltre a due dei maggiori templi della Poseidonia greca – l’Heraion (il grande tempio attribuito alla dea Hera) e il tempio di Apollo (più noto come “tempio di Nettuno” secondo una tradizione conservatrice difficile da scalfire malgrado i dati siano più ragionevolmente da attribuire ad Apollo) – anche alcuni edifici sacri di dimensioni inferiori e di una tipologia architettonica più semplice e priva di peristasi ( la corona di colonne che circonda la cella). Il luogo sacro comprende al suo interno anche quello che è stato identificato come l’Asklepieion, l’edificio cioè dedicato al culto di Asclepio, dio della medicina e figlio di Apollo.
All’interno di questo ampio spazio a carattere sacrale si trovano anche altri apprestamenti funzionali alle manifestazioni religiose, come gli altari – indispensabili elementi per le celebrazioni dei riti – ed inoltre alcune piccole strutture destinate a contenere le offerte votive dei fedeli. Queste “casse” – localmente chiamate “loculi” – hanno forma quadrangolare e sono costruite con lastre di pietra locale assemblate insieme a formare, appunto, dei capienti contenitori degli oggetti offerti come ex-voto, veri e propri thesauroi.
La nostra lekythos proviene quasi certamente (perché così si esplicita sul bigliettino scritto a mano, al momento del recupero e, successivamente, del suo ricovero nei depositi del Museo, che accompagnava il vaso) dal “IV loculo a nord-ovest del tempio cd. di Nettuno”. Come vedremo, le indicazioni sulla provenienza sono di enorme importanza per capire il ruolo rivestito dall’oggetto nel momento della sua deposizione come offerta devozionale.
L’immagine dipinta sulla sua superficie mostra un gruppo di cinque personaggi – due uomini, due donne e una figura di giovane Eros con le ali spiegate – che si muovono nello spazio figurato secondo un sistema di sguardi incrociati che ne appalesa la contemporaneità delle azioni e la condivisione degli atteggiamenti reciproci. I dettagli che caratterizzano ogni singola figura sono gli strumenti che consentono una lettura interpretativa priva di ambiguità sul significato dei gesti ad essi sotteso.
Vediamo: il focus del racconto è rappresentato al centro dell’immagine ed è interpretato dalle due figure femminili e da quella di Eros, mentre le due figure maschili si situano ai margini del campo figurato alle due opposte estremità della scena di cui segnano l’inizio e la fine. Le due donne sono impegnate in ruoli diversi: la prima, elegantemente vestita di lungo chitone, è seduta, probabilmente su una roccia, e si protende in avanti per far cadere con la mano destra grani di incenso nel piattello di un thymiaterion (bruciaprofumi) poggiato davanti ai suoi piedi, mentre con la destra tiene una cassettina, probabile contenitore dell’incenso. L’altra donna indossa un himation avvolto intorno ai fianchi e si presenta con la parte superiore del corpo completamente nuda, fissata nel momento in cui, sollecitata da Eros con le ali spiegate, si appresta a salire su una scala a pioli reggendo nella mano destra la metà superiore di un’anfora spezzata e rovesciata usata come contenitore del kepos (il giardinetto di erbe effimere e destinate a morire in poco tempo) che poggerà sul tetto. I due giovani ai lati della immagine figurata non sembrano rivestire un ruolo preciso se non quello di spettatori – sono rappresentati nudi, uno seduto e l’altro stante, entrambi soltanto con la testa e lo sguardo rivolti verso il centro della scena ma con il corpo di spalle rispetto alla stessa-. In questo quadro il dettaglio significante è fornito dalla scala a pioli, apparentemente appoggiata ad una parete – in realtà è la stessa parete del vaso a fornire l’appoggio – e vero baricentro intorno al quale si snoda il racconto figurato.
Proprio la presenza di questo elemento spiega e chiarisce inequivocabilmente che si tratta di una sorta di “fotografia” che immortala uno dei momenti culminanti della celebrazione delle Adonie, la festa in onore di Adone, il bellissimo figlio di Mirra, tormentata principessa cipriota, e frutto di un amore proibito.
L’attrice protagonista è comunque e sempre lei, la dea Afrodite, irresistibile dea della bellezza, della seduzione, dell’amore. La dea è artefice della vita stessa del fanciullo – causa originaria del suo fatale concepimento – e poi del suo destino di vita in ogni suo aspetto fino alla morte. E perfino della periodica annuale resurrezione.
Una storia d’amore che nasce e si nutre delle parole del racconto mitico, una storia complessa e pure reale, realistica per gli effetti tangibili dei rituali che ne enfatizzano i modi e gli aspetti e che sono celebrati in tutto il mondo greco e perpetuati nel tempo fino ad epoca cristiana.
Afrodite e il sempre giovane Adone sono legati indissolubilmente dalla passione che la dea prova e che manifesta con attenzioni, gesti, atti molto umani, come una donna innamorata perennemente con lo sguardo attento verso l’amato e con il cuore in affanno per il giovane amante.
È una storia complessa e anche tragica che viene evocata nel rituale della festa celebrata una volta all’anno con il ritmo della partecipazione attiva della comunità femminile di ogni ceto. Adone muore e risorge secondo le regole stabilite e dalla sorte crudele che neppure una divinità ha potuto mutare. Una battuta di caccia gli sarà fatale, l’ingenuità e l’imprudenza della giovane età gli fanno pagare il prezzo altissimo della perdita della vita e il destino si compie. Amore e morte rappresentano il Fato, inesorabile e crudele. Lo strazio della dea, la sua impotenza, il dolore per l’ineluttabilità delle conseguenze del tragico incidente sono raccontati nelle poche toccanti parole di Ovidio (Metamorfosi, X, 717-739): “…Venere non era ancora giunta a Cipro: da lontano riconobbe il gemito del morente e invertì il volo dei bianchi uccelli. E come dall’alto vide il corpo esanime che si torceva nel suo stesso sangue, balzò giù e si stracciò la veste, si strappò i capelli, si percosse il petto con le mani… E lamentandosi con il destino disse: “Non però di ogni cosa il destino potrà disporre. Un ricordo del mio lutto, o Adone, rimarrà in eterno: ogni anno si ripeterà la scena della tua morte, a imitazione del mio cordoglio. E il sangue sarà mutato in fiore (…) Detto questo, versò nettare odoroso sul sangue ed esso cominciò a fermentare (…) E un’ora intera non era passata: dal sangue spuntò un fiore dello stesso colore, un fiore come quello del melograno i cui frutti celano tanti granelli sotto la buccia sottile. È un fiore, tuttavia, che dura poco. Fragile per troppa leggerezza, deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali”. Fragile e delicato come può essere la vita stessa, l’anemone affida i suoi petali rosso sangue e la stessa sua esistenza ad un soffio di vento. E con il pianto della dea ebbe inizio il rituale del ricordo, la festa notturna con i lamenti delle fanciulle, i giardini effimeri poggiati sul tetto, l’inebriante profumo dell’incenso bruciato, così Adone muore nelle braccia della sua amante divina.
È la scena riprodotta sulla lekythos, un fotogramma della presentazione delle forme del rito che si compie: la donna seduta vestita come una sposa divina che versa i grani di incenso, la fanciulla che sale sulla scala per sistemare il kepos sul tetto ed Eros che si muove leggero, ad ali spiegate, a dare senso e significato alla cerimonia. Eros e Thanatos, amore e morte legati indissolubilmente alla dea della charis, la seduzione amorosa plasticamente evocata dalla forma del vaso, una lekythos, contenitore di olio profumato, fabbricata, e certamente donata come offerta d’amore, in un lasso di tempo che si situa tra gli ultimi anni del V secolo a.C. e i primi anni del secolo successivo. Profumo e seduzione, il profumo è strumento di attrazione, veicolo di passione d’amore, e Afrodite è certamente la destinataria di questo dono prezioso conservato nel “loculo IV” e poi, dopo un tempo infinito, riportato alla luce e “restituito” a noi tutti come un messaggio d’amore e anche come strumento di conoscenza di un Passato che ci appartiene. E per questo la festa che celebra quella tragica storia d’amore, attraverso il racconto incrociato del mito e del rito, trova nella grande area sacra meridionale di Poseidonia il proprio posto e, nel ricordo della annuale reiterazione della cerimonia, con i suoi aspetti teatrali , con la fragilità degli anemoni, il profumo di incenso e mirra, l’eco dei canti funebri, il ricordo delle lacrime delle fanciulle e quei dolorosi giardini infruttuosi poggiati sul tetto, possiamo assistere anche alla speranza, che diventa certezza, del “ritorno” garantito dalla forza dell’amore. Eros vince anche Thanatos. “La distruzione o Amore” avrebbe recitato, moltissimo tempo dopo, Vicente Aleixandre, poeta spagnolo.